Preoccupanti importazioni di api dall’Italia: un disastro annunciato
Editoriale a cura del Comitato dell'Associazione per il rispetto e la conoscenza delle api
Abstract: Sono in corso imponenti importazioni di api dall’Italia, sia per sostituzione di colonie morte lo scorso anno che per il trasferimento in Ticino di centinaia di casse provenienti da una grossa azienda apistica della zona italiana di confine. Queste operazioni comportano da una parte un aumento della densità degli apiari, e dall’altra un inquinamento della genetica locale. I permessi di importazione e anche di movimentazione interna sono concessi in nome della libertà di commercio, ma a nostro parere occorrerebbe anche ragionare sulle implicazioni epidemiologiche e sulla salute delle api.
Che gli apicoltori ticinesi importino spesso e volentieri api e regine dall’Italia non è un mistero per nessuno. Il più delle volte questa attività segue le procedure di tracciamento ufficiali, altre volte le importazioni avvengono clandestinamente (in particolare le importazioni di regine, ma si sa anche di furgonate di nuclei che entrano nottetempo dai valichi non sorvegliati).
Nel 2024 si è fatto un salto di qualità: mentre in precedenza si trattava quasi esclusivamente di nuclei per sostituire le perdite di apicoltori locali, dall’autunno 2023 e ancora nella primavera del 2024 è in corso l’importazione di diverse centinaia di colonie provenienti dal Piemonte, trasferite da un apicoltore di quella regione che ha ceduto la propria attività a un’impresa ticinese con scarsa competenza apistica fondata appositamente nel maggio del 2023 per entrare nel business dell’apicoltura mirata principalmente alla vendita di miele, lasciando che sia il vecchio proprietario a continuare nella gestione delle api. Anche se i due casi sono distinti, entrambe le operazioni presentano aspetti problematici sui quali occorre stimolare una discussione aperta tra i nostri associati e più in generale tra gli apicoltori ticinesi.
Il ‘miele’ cinese
Cominciamo dal caso dell’apicoltore piemontese. Essenzialmente questo apicoltore si è reso conto che in Italia l’apicoltura non offre più molti sbocchi. Il mercato è infatti invaso da mieli cinesi (spesso contraffatti), sudamericani ed est europei, venduto a prezzi con i quali gli italiani non possono competere (si parla di poco più di 1€ al chilo per il ‘miele’ cinese, meno di 3€ per quello ucraino). Il nostro apicoltore ha dunque avuto l’idea di cedere l'attività a un'impresa ticinese per la quale ora lavora come apicoltore operando in particolare in Valle Maggia e sul piano di Magadino.
Questa operazione è problematica per due ragioni. Si valutava, fino all’altro giorno, che in Ticino ci fossero circa 8'000 colonie di api.[1] Un’immissione di questa portata aumenta la popolazione circa del 10%. Questo significa da una parte un aumento di ampiezza pari o superiore del miele sul mercato cantonale, e dall’altra un aumento della concentrazione di colonie nel territorio. Il primo aspetto è deleterio per i produttori di miele locali, perchè eserciterà probabilmente una pressione sul prezzo del miele nostrano e rischia di lasciare gli apicoltori locali con dell’invenduto. Non stiamo facendo, si badi bene, una lamentela di stampo protezionistico. Ci interessa piuttosto il problema sanitario: qualora il prezzo del miele calasse, per mantenere i propri margini gli apicoltori professionisti locali sarebbero costretti a cercare di ridurre i propri costi (le attrezzature e le materie prime, peraltro, sono aumentate di prezzo negli ultimi due anni) comprimendo il tempo da dedicare a ciascuna colonia e/o cercando di estrarre più miele da ciascuna arnia, a scapito delle scorte. Tutto questo andrebbe a detrimento sia della salute delle api che della qualità del prodotto.
Insomma, l’apicoltore che fugge dai danni creati dai cinesi in Italia ricrea qui un problema simile: lui e l'impresa che ha rilevato le sue colonie e l'ha assunto sono i nostri ‘cinesi’.
Il secondo aspetto problematico, anch’esso di carattere sanitario, riguarda l’aumento della concentrazione di api su un territorio ristretto e, francamente, già sovrappopolato: ci sono in Ticino delle zone con oltre 300 arnie stanziali al km2, una densità superiore a quella degli impollinatori delle monoculture americane (dove le api però restano 2-3 settimane prima di essere portate verso altri raccolti, mentre nel nostro caso le api restano lì anche quando non sono in corso importanti foriture). A titolo di confronto, si pensi che la popolazione selvatica delle api della foresta di Arnot studiata da Seeley[2], dove il numero di colonie è regolato dalla capacità di carico dell’ambiente, ha una densità di una colonia al km2. La condizione delle nostre api è dunque già assurda, ed è destinata ad essere peggiorata dall’immissione sul territorio di un numero insostenibile di colonie.
Un aumento della densità di colonie è destinato ad accrescere i problemi già esistenti (che, prevedibilmente, saranno ulteriormente aggravati dall’evoluzione del clima verso stagioni sempre più calde e secche inframmezzate da piogge catastrofiche, durante le quali le fioriture tendono a diventare scarse e poco produttive). In certi periodi dell’anno abbiamo già situazioni di scarsità di polline, con conseguenze sulla qualità della covata e talvolta anche sulla sua stessa possibilità (come è accaduto nell’agosto 2022), dunque sulla performance delle api. Da queste carestie non possono che conseguire colonie deboli e malaticce. E, naturalmente, con l’aumento della concentrazione delle api eventuali malattie e la diffusione dei parassiti saranno enormemente facilitati.
Le importazioni di api e regine dall’Italia
Per certi apicoltori ticinesi, la prassi di importare continuamente api è ormai parte di una tradizione consolidata. Per alcuni, è meno costoso comperare api in Italia che non fare lo sforzo di curarle adeguatamente per tenerle vive. Questo si traduce in un pericoloso circolo vizioso: le api non riescono a superare l’inverno, per incuria o per incompetenza; in aprile si comprano nuclei in Italia al prezzo di un centinaio di Fr o poco più. Siccome questi nuclei sono stati preparati al sud della penisola proprio per essere pronti molto precocemente, da una parte le regine non sono adeguate al nostro clima, e dall’altra hanno già completato un paio di cicli di covata (e dunque anche di moltiplicazione dei parassiti) più delle nostre. Certamente queste api riescono a produrre miele: diciamo 20-40 kg l’una, a seconda delle annate e del numero di raccolti nei quali vengono impiegate, vendibile a 15-20 fr al kg, per un incasso totale pari a 3-6 volte l’investimento iniziale. Ma dopo il raccolto hanno così tante varroe che hanno ben poche possibilità di sopravvivere, e anche quelle che arrivano all’inverno non sono adatte al nostro clima e periscono. Così l’anno dopo si ricomincia, e nel corso di questo processo si disseminano parassiti in tutte le colonie nelle vicinanze.
Il problema non si esaurisce qui. Questi apicoltori, che spesso gestiscono centinaia di colonie, saturano coi propri fuchi tutti i luoghi di fecondazione, inquinando così con una genetica non adatta al nostro territorio anche le nuove regine nate da colonie allevate localmente. In questo modo si ostacolano gli sforzi selettivi degli apicoltori che privilegiano ecotipi locali e rinunciano ad importare api e regine dall’estero.
Questa, incidentalmente, è la ragione per la quale la nostra Associazione chiede ai propri soci di prepararsi la rimonta o, se proprio necessario, rifornirsi localmente di api o regine, rinunciando a importazioni [articolo 9 dello statuto, riprodotto nelle condizioni di adesione all'Associazione].
La salute delle api e le risorse a loro disposizione
Pur essendo perfettamente consapevoli che, per ragioni commerciali, il nostro paese non intende ostacolare le importazioni di api purché si segua la procedura regolamentare, non possiamo fare a meno di sottolineare le implicazioni di questa prassi sulla salute delle api. In Svizzera, mediamente ogni anno le perdite invernali complessive si situano attorno al 35% degli effettivi (in ascesa da 25% circa di un decennio fa (inchiesta annale Apisuisse, v. grafico). La loro situazione è dunque già piuttosto drammatica. L’aumento della concentrazione delle colonie rende più probabile il verificarsi di periodi temporanei di scarsità di polline, semplicemente perché ci sono più api che devono spartire il poco polline a disposizione (ricordiamo che ogni colonia abbisogna di circa 25 kg di polline di buona qualità all’anno, in un flusso continuo).
Studi sull’alimentazione delle api hanno rilevato che in condizioni di scarsità di polline le api restano più piccole e più leggere, vivono meno, non sempre vivono a sufficienza per diventare bottinatrici, e anche qualora lo diventassero la loro efficienza nella comunicazione è ridotta.[3] Si è anche rilevato che la scarsità di polline, in termini quantitativi ma anche qualitativi, va a detrimento della capacità immunitaria delle api, che dunque risultano più propense ad ammalarsi.[4] Non è dunque necessario che il polline scompaia del tutto: basta che venga a mancare qualche aminoacido dalla combinazione per impoverire la dieta. Anche quando questi periodi di carestia sono limitati nel tempo, l’insufficiente capacità lavorativa delle api nate da larve cresciute in condizioni di scarsità di polline tende a riprodurre il problema, poiché a causa dell’inefficienza acquisita a loro volta alleveranno larve a cui non riescono a fornire cibo in quantità e di qualità sufficiente. Le api diventano dunque suscettibili ad altri tipi di stress.
Queste considerazioni non esauriscono certo il quadro dei problemi.[5] Tuttavia, per quanto siano ampiamente discussi in letteratura, gli effetti di queste criticità non sono immediatamente apparenti: mentre il sovrasfruttamento di un alpeggio si traduce visibilmente in vacche magre che persino i turisti di passaggio potrebbero notare, una diagnosi chiara di quanto accade dentro un’arnia è difficile anche per apicoltori esperti poiché le relazioni sono molto complesse e causano effetti su generazioni successive di api.
È comunque innegabile che la concentrazione di api non è un problema di mercato, ma è principalmente un duplice problema sanitario: un’eccessiva densità di alveari pone da una parte le basi per un indebolimento delle colonie, rendendole così suscettibili a malattie, e dall’altra rende più facile la trasmissione e la diffusione delle malattie stesse, in particolare le infestazioni di acari, e rende enormemente più difficili gli interventi di contenimento di epizoozie (come ha ben mostrato nel 2023 un caso di peste americana partito più o meno al centro di una delle aree a maggiore densità di apiari del’intero cantone, nel comune di Capriasca, che per essere gestito ha richiesto l’intervento di diversi ispettori contemporaneamente).
Formazione e informazione per far funzionare la concorrenza
Ciò nonostante, il problema è sempre descritto in termini di libertà d’impresa, in base alla falsa equivalenza tra l’apicoltura e una attività produttiva di beni inanimati. Se ci sono troppi produttori di, per esempio, scarpe, una parte di queste risulta invendibile, i prezzi scendono, e qualche produttore esce dal mercato, ripristinando l’equilibrio tra domanda e offerta, seppure a prezzo di una turbolenza. Quando invece si ha un eccesso di api, il bilanciamento di domanda e offerta non passa solo dal prezzo del miele, ma anche dallo stato generale di salute delle api stesse. E questo è importante non solo per ciascun apicoltore, ma anche per lo svolgimento efficiente dell’attività di impollinazione (considerata come un’esternalità che non rientra nell’equazione), senza contare le conseguenze della competizione per le risorse tra api mellifere e selvatiche e l’aumento della possibilità di trasmettere a queste ultime dei virus delle api mellifere: tutte questioni ancora aperte che richiederebbero un atteggiamento prudenziale. Infine, anche senza addentrarsi nella questione etica del far giocare la concorrenza sull’esoscheletro di esseri viventi, va ricordato che ciascuna colonia di api ‘sacrificate’ su questo altare è portatrice di una specifica combinazione genetica, la cui perdita di volta in volta è definitiva.
Per quanto sia fallace, questo approccio può difficilmente essere aggirato: le norme per l’importazione sono regolate a livello federale. Tuttavia possiamo invocare un margine di apprezzamento a disposizione delle autorità cantonali. In primo luogo, nell’equazione vanno considerati gli aspetti di salute animale: dove la concentrazione di alverari è evidentemente eccessiva, nuovi insediamenti (anche solo temporanei) vanno fortemente scoraggiati, in particolare educando gli apicoltori sulle conseguenze della contiguità.
In secondo luogo, va ricordato che condizione essenziale per il funzionamento dei meccanismi di concorrenza è la disponibilità per tutti gli operatori di informazioni accurate, in particolare riguardo alla localizzazione degli altri apiari. Nella teoria economica, il vettore di informazioni è il prezzo:[6] l’apicoltore dovrebbe capire dal prezzo del miele se ci sono troppe o troppo poche api. Tuttavia il prezzo del miele è determinato a livello cantonale, mentre la competizione e l’interazione tra alveari è determinata localmente, entro circa 1.5 km di raggio. È dunque indispensabile poter conoscere la concentrazione di alveari entro tale raggio. Lo strumento adeguato per fornire questa informazione è facilmente realizzabile senza violare la privacy degli apicoltori: basterebbe una mappa anonima di densità come quella in figura (a suo tempo preparata dalla sezione di Lugano della FTA) dalla quale si possano facilmente evincere quali siano le aree ad alta e altissima concentrazione di colonie, nelle quali nessun apicoltore dotato di un minimo di buon senso vorrebbe entrare e dalle quali chi può dovrebbe uscire al più presto.
I dati ci sono (il censimento annuale delle colonie), anche se non ancora molto accurati, e la tecnologia è facilmente a disposizione.
Una soluzione basata sulla responsabilità individuale per un problema di salute (animale) pubblica non è certo ottimale. Ma almeno è tipicamente svizzera, purché si soddisfi il presupposto che le decisioni logistiche individuali siano bene informate. Al momento questo presupposto non si verifica. L’arrivo di centinaia di nuove colonie —alcune delle quali già poste in prossimità di apiari esistenti— lo rende urgente, anche perché non è escluso che in futuro ci si sia qualche tentativo di imitazione.
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I nostri soci e gli apicoltori della Svizzera Italiana sono invitati a discutere questo articolo nello spazio creato appositamente in fondo alla pagina (occorre registrarsi per poter contribuire al forum). In particolare, sarebbe utile segnalare i casi di comparsa di grossi apiari nelle vicinanze di apiari esistenti, in modo da poter cominciare a evidenziare concretamente i casi più problematici.
Note
[1] https://apicoltura.ch/chi-siamo/fta/, consultato il 15 aprile 2024.
[2] T. D. Seeley, La vita delle api. La storia mai raccontata delle api allo stato selvatico, Edizioni montaonda (2019), cap. 2.
[3] Uno studio recente ha rilevato che larve allevate con un insufficiente quantitativo di polline sono visibilmente più piccole e più leggere (tra 8 e 37% di peso in meno) rispetto a quelle allevate senza restrizioni; la loro vita adulta è dura tra 5 e 18 giorni meno di quelle di api allevate con abbondanza di polline, vale a dire una diminuzione del 21–56% della durata di vita. Per quanto riguarda il comportamento, le api da larve allevate in condizioni di scarsità bottinano meno delle api allevate normalmente: solo il 62% delle api nate da larve con poco polline sono diventate bottinatrici, contro l’80% delle altre; hanno iniziato a bottinare 2–5 giorni prima, e la loro attività di volo è durata 1–3 giorni in meno; il primo giorno di volo ne sono andate perse il 30%, contro un 13–15% di quelle allevate normalmente e non rientrate nell’arnia. Anche l’attività di danza è stata meno soddisfacente: solo il 9% delle bottinatrici nate da larve scarse di polline hanno danzato, contro il 21–24% delle altre; anche se la densità delle danze effettuate è stata grossomodo la stessa, quelle a corto di polline hanno effettuato danze molto meno precise delle altre (H. N. Scofield e H. R. Mattila, Honey bee workers that are pollen stressed as larvae become poor foragers and waggle dancers as adults, PLoS ONE 2015, vol. 10(4): e0121731.)
[4] Mettendo in relazione la nutrizione a base di diversi tipi di polline con vari fattori che influenzano la capacità di resistenza alle malattie, si è notate che api private di polline sviluppano molto meno sia il sistema immunitario individuale (relativamente poco importante per l’ape mellifera, rispetto alle api selvatiche) che soprattutto la risposta immunitaria della colonia nel suo complesso, che invece costituisce la principale barriera allo sviluppo e alla diffusione di malattie. Le diete con più tipi di polline hanno effetti positivi più marcati rispetto alle diete monopolliniche (C. Alaux, F. Ducloz, D. Crauser e Y. Le Conte, Diet effects on honeybee immunocompetence, Biol. Lett. 2010, vol. 6, pp. 562–565; G. Di Pasquale, M. Salignon, Y. Le Conte, L. P. Belzunces, A. Decourtye et al. Influence of pollen nutrition on Honey bee health: Do pollen quality and diversity matter?, PLoS ONE 2013, vol. 8(8): e72016). Si veda anche il recentissimo contributo di Daniele Alberoni: "dobbiamo preoccuparci di colmare eventuali gap nell'importazione di polline all'interno degli alveari, in quanto è proprio la mancanza di polline a risultare particolarmente deleteria, forse più del nosema" (NO PROBleMS [NOurishing PRObiotics to bees to Mitigate Stressors]. Da un'esperienza di vita a un progetto scientifico applicato sul campo. Dossier allegato a L'Apis n°3/2024).
[5] v. per un riassunto D. Besomi, Scarsità di polline e funzionamento della colonia (apilugano.ch)
[6] V. per esempio Sanford J. Grossman, Joseph E. Stiglitz, Information and Competitive Price Systems, The American Economic Review, Vol. 66, No. 2, Papers and Proceedings of the Eighty-eighth Annual Meeting of the American Economic Association (May, 1976), pp. 246-253.